Riprendere un lavoro scritto diciotto anni fa significa per prima cosa toccare con mano il tempo che è passato. Il testo non si trova su nessun cd, floppy o altro, era stato "battuto" a macchina con una Olivetti che allora sembrava essere il massimo, correlata di bianchetto per gli errori.
Il tempo che passa si presenta anche dalla copertina: l'immagine di una giovane donna incinta con sullo sfondo una fabbrica presa a simbolo un'acciaieria icona di tutte le fabbriche. Daniela sapeva che avrebbe partorito una bambina e per questo il libro era stato dedicato a "Ilaria futura". Ilaria è nata, cresciuta ed ora ha diciotto anni, compiuti mentre il libro sta andando in stampa (maggio 2008). L'acciaieria è ancora al suo posto ha cambiato nome ora si chiama Beltrame. L'attuale copertina riprende lo stesso tema, in primo piano una giovane ragazza, Ilaria appunto, con sullo sfondo l'incubo di un "progresso?" avvelenato che ci avvelena. In questo spazio di tempo è sparita la classe operaia, o meglio il suo peso contrattuale, sono rimaste le fabbriche, quasi ci fossero degli ufo a mandarle avanti. Sono rimasti tutti i problemi di sostenibilità fra lavoro e ambiente. Sono "sparite" molte delle operaie della Sia, l'amianto, anzi l'asbesto le ha portate via. E' rimasto un senso di inadeguatezza, di dolore, come quello raccontato dalla sindacalista Patti, responsabile Filtea Cgil di Torino, la quale si stupisce di essere ricordata con affetto dalle lavoratrici Sia, nasconde il viso fra le mani: "Ma come? Non ho fatto niente per loro, non potevo". "Quando denunciavamo le condizioni della fabbrica tutti ci prendevano per matti, compreso il sindacato. Volevano fermarci". La colpa? Un cinquanta cinquanta: metà di colpa, si diceva: "va data al sindacato che non voleva vedere, l'altra metà agli operai, anzi le operaie che comunque volevano lavorare". Ammettono. "Sì, anche se avessi saputo della pericolosità della fabbrica avrei continuato a lavorare lì. Era comoda, a due passi da casa, riuscivo a stare dietro ai figli, alla famiglia, a tutto". E allora si chiudevano gli occhi. Intanto la parola ambiente diventava sempre più importante, centrale anche in politica. In quegli anni nasceva il partito dei Verdi. Cosa bisogna privilegiare il lavoro o la salute? Il progresso passa necessariamente attraverso la distruzione del pianeta? A quasi vent'anni dall'uscita del libro Digerire l'amianto i temi sono attuali. Allora l'Acna di Cengio l'impianto chimico di proprietà dell'Enichem, finalmente veniva chiusa (1999) dopo cento anni di veleni, la valle Borrnida bonificata sta ritornando a vivere. Messa in sicurezza la cava di Balangero e poi Casale Monferrato, una intera città che continua a contare i morti per la fabbrica Eternit per la lavorazione dell' amianto.
Allora c'erano gli operai e c'era il Pci con una prestigiosa sede in un palazzo a Torino, zona centrale, le finestre su piazza Castello. All'entrata c'era una targa d'ottone che aveva fatto fermare le operaie Sia con un grido soffocato di stupore: "E' d'oro?". La ricerca sulla Sia era stata l'occasione per prendere contatti con associazioni, avvocati, politici, chiunque potesse dare una mano a sbrogliare la matassa di una fabbrica chiusa senza cassa integrazione, senza salvacondotti e nuovi posti di lavoro. L'Associazione Esposti Amianto era stata immediatamente disponibile. Le operaie si stupivano di tanta attenzione e premura: "Venite da Milano apposta per noi?". Il libro era stata occasione per un tour a Firenze, Padova, Genova, Milano, ovunque ci fossero problemi di amianto da evidenziare, con i marittimi o con i ferrovieri.
Ricordo perfettamente: non volevo scrivere. Non sapevo nulla di amianto, i precedenti scritti sul carcere e sui manicomi di Grugliasco e Collegno non potevano essere un lascia passare per tutti i temi. Il sindaco Marco Lo Bue aveva insistito "solo un incontro". In seguito aveva ammesso il tranello. Dopo era impossibile scappare. Ed ero rimasta, assorbendo come una spugna ogni colpo, ogni racconto, ogni dolore. Preoccupata di non saperlo ritrasmettere sulla carta, quelle parole, quei suoni. Di non saper digerire quella storia così intrecciata: donne e storie minime, donne e figli in pancia, insieme alle fibre di amianto che si sarebbero rivelate anni e anni dopo. Una radiografia fin troppo facile e per questo c'era stato pudore nello scrivere. Tante ore trascorse ad ascoltare, in cucina, centrini all'uncinetto strapazzati con le mani, sistemati e risistemati al centro tavola mentre salivano i ricordi, la rabbia. Cosa si poteva fare? Doppiamente incatenate in fabbrica e nell'ingranaggio del quotidiano, mandare avanti una famiglia non era cosa facile. Alla fine la prova: restituite le emozioni carpite, le informazioni, la vita in parole scritte. In occasione dell'otto marzo, festa della donna, per la prima volta alcune pagine lette, così senza saper leggere, solo per loro. Pioveva. Come si poteva tradurre in letteratura quella sofferenza? Quella storia. Pesante alzare gli occhi e incrociare i loro sguardi, occhi di donne divenute personaggi in un libro. In fondo dall'altra parte della stanza, il sindaco (il committente), un impermeabile bianco, il viso contratto. Mimose e pasticcini, difficile da conciliare, facendo finta di niente.
Chiara Sasso
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